Uno studio di architettura utilizzava per l’attività professionale dello studio e, pertanto, deteneva a scopo imprenditoriale alcuni programmi informatici senza essere munito della relativa licenza di utilizzo”. Condannato in primo e secondo grado, il titolare ricorre per cassazione. E fa proprio bene, perché la Corte cassa la sentenza e lo assolve perché il fatto non sussiste.

Dalla decisione (Cassazione Penale, Sezione III, udienza 28 ottobre 2010, sentenza 30 novembre 2010, n. 42429) non emergono i dettagli dei fatti [ed è un peccato, perché come vedremo più avanti, questo non consente di valutare la correttezza della decisione] ma solo due principi.

Primo, che la Corte di Giustizia UE, nella sentenza 8 novembre 2007, causa C‑20/05, Schwibbert, ha affermato che disposizioni nazionali che, successivamente all’entrata in vigore della Direttiva 83/189/CEE, che prevede una procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche, abbiano stabilito l’obbligo di apporre sui supporti che contengono opere dell’ingegno il contrassegno SIAE , costituiscono una regola tecnica che, se non notificata alla Commissione, non possono essere fatte valere nei confronti di un privato e devono essere disapplicate dal giudice nazionale (attenzione, fino a che non sia intervenuta la notifica).

Osserva giustamente la Cassazione che l’art. 171-bis L.a. prevede due reati diversi: 1) la duplicazione abusiva a scopo di profitto di programmi per elaboratore; 2)  l’importazione, distribuzione, vendita e detenzione a scopo commerciale o imprenditoriale o la concessione in locazione di programmi contenuti in supporti privi del bollino SIAE.

Partendo da questo presupposto, la sentenza dice che “nell’ipotesi di abusiva duplicazione di programmi per elaboratore al fine di trame profitto il contrassegno SIAE non è elemento costitutivo del reato, sicchè la pronuncia della Corte di Giustizia Europea non esplica alcun effetto sulla configurabilità di tale fattispecie criminosa .

Ma all’imputato non era stata contestata la duplicazione abusiva, quindi il problema non si poneva. All’imputato era stata contestata, invece, la detenzione a scopo imprenditoriale di software privo del bollino SIAE in epoca antecedente al DPCM 23 febbraio 2009, n. 31 (notificato alla Commissione Europea), per cui  non poteva essere condannato.

Tutti felici, ovviamente, e la sentenza poteva finire qui, senza che nessuno fosse particolarmente sorpreso.

Ma la Cassazione “per completezza” ha esaminato anche il secondo motivo di ricorso e ha detto che “…la detenzione ed utilizzazione, nell’ambito di un’attività libero professionale, di programmi per elaboratore privi di contrassegno SIAE non integra il reato di cui alla Legge n. 633 del 1941, art. 171-bis, comma 1, non rientrando tale attività in quella  “commerciale o imprenditoriale” contemplata dalla fattispecie incriminatrice e non potendo essere estesa analogicamente la nozione di attività imprenditoriale fino a comprendere ogni ipotesi di lavoro autonomo, risolvendosi in una applicazione della norma in malam partem vietata in materia penale (art. 14 proteggi), (cfr. sez. 3, 22.10.2009 n. 49385, Bazzoli, RV 245716)”.

E qui iniziano i problemi, perché la sentenza non è più così chiara.

Che cosa è, per la Corte, duplicazione di software? Installare e usare su due computer o in rete un software per il quale si ha una sola licenza è duplicazione? Difficile negarlo, ma non sappiamo se sia avvenuto, perché la sentenza è alquanto laconica sui fatti.

E poi, l’art. 171-bis punisce chi “importa, distribuisce, vende e detiene a scopo commerciale o imprenditoriale o concede in locazione programmi contenuti in supporti” privi del bollino SIAE. Ma non parla espressamente di utilizzazione.

Dunque, se anche volessimo condividere che lo “scopo commerciale o imprenditoriale” non possa essere equiparato a quello libero professionale [certo che condividiamo! Anche se ci chiediamo che cosa ne penserà la Corte di Giustizia, almeno da Hofner ed Elser (C-41/90) in avanti, per non parlare di Spedizionieri Doganali (C-35/96), di Arduino (C-35/99), Wouters C-309/99). Ma, si sa, il diritto della concorrenza è ancora esoterico, in Italia], non è chiaro come si possa utilizzare un software senza duplicarlo.

Ricordiamoci l’incipit della sentenza: “utilizzava per l’attività professionale dello studio e, pertanto, deteneva…senza essere munito della relativa licenza di utilizzo”. Ma, evidentemente, era riuscito ad utilizzare software senza duplicarlo.

Perché se l’avesse duplicato senza licenza, il reato sarebbe stato quello di duplicazione abusiva (i.e. senza licenza) a scopo di profitto.

Oppure, dobbiamo dedurre, l’attività libero professionale non ha scopo di profitto…

In realtà, la soluzione del problema probabilmente sta nella differenza tra il concetto di “riproduzione permanente o temporanea” dell’art. 64-bis L.a. e il concetto di “duplicazione” dell’art. 171-bis L.a..  Ma la legge non chiarisce la differenza, che dalla sentenza non emerge con chiarezza, e il lettore viene lasciato nel dubbio. E non è un dubbio da poco, oggi che le reti di computer sono entrate anche nelle nostre case [i.e. un software installato in rete è duplicato o riprodotto?].

In conclusione, attenzione a leggere le sentenze in questa materia, è così complicata che l’errore è dietro l’angolo [e francamente non posso escludere di avere sbagliato qualcosa neppure in questo post!].