“…scrivere, creare una vita parallela, ove rifugiarsi dalle avversità, che fa diventare normale ciò che è straordinario e straordinario ciò che è normale, che dissipa il caos, imbellisce ciò che è brutto, conferisce l’eternità a un istante e trasforma la morte in uno spettacolo passeggero…”.

Questa è la creatività per Mario Vargas Llosa (Elogio della lettura e della finzione, Einaudi 2011).

La giurisprudenza italiana non ha una così alta considerazione della creatività: “…il concetto giuridico di creatività…non coincide con quello di creazione, originalità e novità assoluta, riferendosi, per converso, alla personale e individuale espressione di un’oggettività appartenente alle categorie elencate, in via esemplificativa, nell’art. 1 della legge [633/1941], di modo che un’opera dell’ingegno riceva protezione a condizione che sia riscontrabile in essa un atto creativo, seppur minimo, suscettibile di manifestazione nel mondo esteriore, coti la conseguenza che la creatività non può essere esclusa soltanto perché l’opera consiste in idee e nozioni semplici, ricomprese nel patrimonio intellettuale di persone aventi esperienza nella materia” (Cass. 12 marzo 2004 n. 5089).

La differenza di vedute tra un Premio Nobel e i nostri giudici può sembrare insignificante, visti i mestieri differenti, e forse lo era prima del web 2.0, prima di Internet, prima del software, del cinema, della fotografia.

Ma come si vede da questa carrellata (si parla di cinema, no?!) il diritto d’autore e il copyright tendono a riempire gli spazi vuoti, si propongono come tutela delle nuove creazioni dell’ingegno umano, anche se con l’arte hanno poco a che vedere, come il software.

Il problema è semplice: qual’è il livello di creatività necessario perché il diritto d’autore tuteli un’opera utilitaristica, brutta parola riservata alle creazioni tecnologiche. che il legislatore non ha saputo disciplinare in modo diverso?

Per fare un esempio concreto: come si fa a stabilire se il testo che ho scritto e caricato su un social network o su un blog è protetto dal diritto d’autore?

La giurisprudenza ci aiuta, ma bisogna conoscerla, e non è semplice. Non lo è per gli avvocati, se è vero che la proprietà intellettuale è “…la metafisica del diritto, dove le distinzioni sono, o almeno possono essere, molto sottili e raffinate, e talvolta, quasi evanescenti”. Folson v. Marsh, 9 F.Cas. 342, (C.C.D.Mas.1841), 1, 382 (e, si noti, poco è cambiato dal 1841, quando è stata pubblicata la sentenza americana da cui è tratta la citazione).

E a maggior ragione non lo è per gli utenti di Internet.

La sensazione è che l’enorme, incontrollabile, numero di materiali astrattamente protetti dal diritto d’autore presenti in rete siano, di fatto, di pubblico dominio. Che siano opere non protette perchè l’autore non le tutela per disinteresse (non tutti vogliono sfruttare la propria creatività), per ignoranza (non tutti conoscono i loro diritti), costi troppo elevati, tempi che con la giustizia hanno poco a che fare (la scorsa settimana la Corte d’Appello di Firenze ha depositato la sentenza di una causa iniziata, in Tribunale, nel giugno 2000).

Soprattutto tempi e costi dissuadono le PMI dal tutelare le loro opere.

In Inghilterra hanno risolto – si fa per dire – il problema con il tipico pragmatismo anglosassone. Visto che i costi della loro litigation in materia di intellectual property sono tra i più alti al mondo, nel 1990 hanno creato un nuovo giudice, la Patents County Court, per i casi più semplici in materia di proprietà intellettuale (dove la parola semplice è quasi sempre un eufemismo).

In Inghilterra la proprietà intellettuale è presa sul serio: “The creation and use of IP plays a crucial role in economic activity and in the achievement of many social goals, such as effective health care or renewable energy. The background to any IP regime must be a civil justice system which enables parties to assert or defend their IP rights (“IPR”). Such a civil justice system must deliver correct judgments at affordable cost in the complex field of IP.This is no easy task.”

Queste le parole di Lord Justice Jackson, delle quali ci possiamo fidare visto che è di mestiere fa il giudice della Court of Appeal e che tra tutti i suoi colleghi è stato scelto dal Master of the Roll (il presidente della Civil Division della Court of Appeal) per analizzare i costi della giustizia inglese.

Nel suo Review of Civil Litigation Costs (pensateci prima di scaricarlo, è un pdf di 584 pagine), pubblicato nel dicembre 2009, Sir Rupert Jackson ha speso molte parole per analizzare lo stato della IP litigation. Uso l’inglese, nonostante all’Università mi abbiano sempre sconsigliato di farlo, perché la corrispondente espressione italiana “contenzioso in materia di proprietà industriale e intellettuale” mi ricorda tanto la battuta di Massimo Troisi su Ugo e Massimiliano.

Per quello che ci interessa, dice Sir Jackson che “There is concern that at the moment many SMEs do not have access to justice in respect of IP disputes, because of the prohibitively high costs of litigating in the PCC” (pag. 252). E lo dice in un Paese dove vent’anni prima avevano previsto un giudice per le cause semplici (ma vedete i costi medi a pag. 50, anche se calcolati su un campione statistico poco significativo).

La stessa preoccupazione esiste in Italia. E’ vero che il nostro sistema cautelare è efficiente (in circa tre, massimo quattro mesi primo grado e reclamo) ed efficace (la Direttiva Enforcement non ci ha sconvolto più di tanto) ma  le cause di merito sono ancora lunghe, anche di fronte alle Sezioni Specializzate (almeno in periferia, cioè a Firenze e, per quanto mi risulta, a Roma, visto che in materia il centro è a Milano) e i costi sono alti, per PMI e privati.

Inoltre, una fast track per le cause semplici, di fronte a giudici specializzati, con costi limitati, sul modello inglese, sostenibili per le PMI e i privati, potrebbe far emergere comportamenti scorretti e aumentare la deterrenza complessiva del sistema.

Anche gli avvocati ne beneficierebbero, in fondo: la riduzione di tempi e costi determinerebbe un aumento dei procedimenti, che ragionevolmente compenserebbe i minori ricavi sulla singola causa.

Intendiamoci: riduzione dei costi significa, prima di tutto, abolizione dei balzelli e dazi che lo Stato chiede; dal contributo unificato di iscrizione a ruolo fino all’imposta di registro sulle sentenze.

Per rimanere a Troisi (e Benigni): “Chi siete? Cosa portate? …un fiorino!”.